CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE (Presidente: B. Foscarini; Relatore: P. Marini) Sono lecite le telecamere puntate sulla via pubblica per prevenire eventuali illeciti, anche se invadono involontariamente la privacy altrui MOTIVI DELLA DECISIONE A. A. ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe che ha confermato il giudizio di sua colpevolezza (condanna a mesi 4 di reclusione), reso in data 25/10/1977 dal Pretore di Forlì, per il reato di interferenza illecita nella vita privata (art.615 bis cod. pen. [1] ) di Z. I., procurandosi indebitamente immagini relative allo svolgimento dell'attività lavorativa di costei nell'autorimessa gestita nella stessa città. Il ricorrente deduce violazione della legge penale e vizio di motivazione, sotto triplice profilo: il fatto contestato era costituito dall'installazione di una telecamera puntata sul tratto di via pubblica prospiciente la frontistante autorimessa e, in questi termini, doveva negarsi che non fosse consentito al privato documentare i fatti ricadenti nella sua possibilità di percezione visiva in ragione del diritto di veduta sulla via pubblica; che la ripresa televisiva non avrebbe comportato alcun risultato invasivo della vita privata nei luoghi indicati nell'art.614 cod. pen. [2] , atteso che la telecamera avrebbe inquadrato poco più che lo spazio antistante l'entrata dell'autorimessa, e la porta di accesso alla via pubblica non sarebbe ricompresa nella previsione di detta norma; non sarebbe stata presa in esame, al fine di escludere il connotato indebito dell'interferenza per difetto del dolo tipico, la giustificazione dell'imputato di avere unicamente inteso assicurarsi la prova dei danneggiamenti ad auto ricoverate nell'autorimessa, per i quali egli era stato ingiustamente incolpato, mediante ispezione del tratto di via pubblica antistante il garage. Il primo rilievo, peraltro pedissequamente ripetitivo della doglianza in appello, è infondato atteso che il ricorrente confonde nel concetto del diritto di veduta, che soffre limiti di natura civilistica (distanze) solo in relazione alle possibilità di nuove aperture, quello del diritto di documentazione dei fatti di vita privata altrui, non riconosciuto nel nostro ordinamento e concepibile solo con il consenso dell'avente diritto ovvero in presenza di cause di giustificazione. Debbono peraltro ritenersi fondati il secondo ed il terzo motivo che, seppure diversamente articolati correggono il tiro del primo, e sostanzialmente propongono una censura che investe il giudizio di ricorrenza dell'elemento soggettivo del reato ritenuto. La stessa impugnata sentenza, infatti, riconosce che lo strumento di ripresa visiva (telecamera) comprendeva l'ingresso dell'autorimessa e, sia pur di poco, l'interno della stessa, nonchè quello dell'attigua abitazione privata del titolare; al contempo, la sentenza non esclude che l'imputato abbia agito per finalità di autotutela (individuare il danneggiatore delle auto ricoverate nel garage e, così, scagionarsi dall'ingiusta accusa che in tal senso gli veniva rivolta), pur negando valenza scriminante alla circostanza. Avute presenti tali circostanze, non risulta resa adeguata motivazione circa l'effettiva rappresentazione dell'antigiuridicità del fatto nel soggetto agente. Nella specie, infatti, nei termini in cui è stata contestata la prima ipotesi delittuosa disegnata nell'art.615 bis cod.pen., l'elemento psicologico necessario ad integrare il reato doveva ricercarsi e riconoscersi nel dolo generico, rappresentato dalla volontà cosciente dell'imputato di procurarsi indebitamente le immagini inerenti la vita privata della titolare dell'autorimessa; ma, in particolare, sostenendosi nei motivi di appello che la ripresa televisiva aveva avuto un risultato minimamente invasivo e sostanzialmente involontario del luogo di lavoro della titolare, in realtà mirando l'agente a perlustrare visivamente la pubblica via nel tratto immediatamente antistante l'ingresso dell'autorimessa onde poter sorprendere soggetti sospettabili dei danneggiamenti alle auto, competeva al giudice dell'impugnazione rendere effettiva e congrua risposta dell'intenzionalità del fatto contestato, con specifica attenzione al limite spaziale previsto dal reato in esame. La ricorrenza di una tale volontà, viceversa, non risulta realmente motivata, perchè l'impugnata sentenza si limita ad affermare il principio che in ogni caso, poichè la ripresa televisiva abbracciava l'ingresso dell'autorimessa e l'attiguo ingresso dell'abitazione della titolare, risulterebbero oggettivamente procurate immagini della vita privata svolgentisi in uno dei luoghi indicati nell'art.614 cod.pen. e, cioè sulla soglia di casa, ovvero di un luogo di privata dimora, per esso inteso quello destinato all'esplicazione di attività lavorativa privata. In tali termini, la sentenza non ha affrontato, pure in presenza di uno specifico addebito, il tema dell'involontaria violazione della privacy della titolare dell'autorimessa e, parallelamente, quello dell'irrilevanza penale di riprese incentrate sulla pubblica via; l'affermazione che è risultato inquadrato sia pure per poco l'interno dell'autorimessa, in uno alla non escludibilità dell'intenzione dell'agente di volere unicamente verificare movimenti sospettabili all'ingresso della medesima, legittimava la necessità di una compiuta motivazione circa l'effettiva volontà dell'imputato di procurarsi indebitamente immagini della vita privata della Zanetti. Consegue che l'impugnata sentenza deve essere annullata in relazione all'elemento soggettivo del reato, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna. PQM Annulla l'impugnata sentenza in relazione all'elemento soggettivo del reato, e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna. Roma, 23/1/2001. Depositata in Cancelleria il 28 febbraio 2001. |
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